Pensiamoci... ma anche no!

Nel momento in cui ci accingiamo a svolgere un compito mettiamo in campo una o più funzioni. Tali funzioni sono espressioni del nostro sapere, innato o acquisito, rese necessarie e spesso fortemente connotate da precise circostanze. A volte, o magari ancora più raramente, rispondono ad una intuizione, o sostengono un atto creativo, ma resta il fatto che ci consentono di soddisfare una spinta, un bisogno, individuale o collettivo che sia, a sè stante o facente parte di insieme di bisogni, corrispondente ad un moto interiore o a delle richieste provenienti dall'esterno.

Dato che siamo esseri sociali e viviamo di relazioni con gli altri, queste funzioni ci permettono, o più semplicemente ci portano, ad assumere un ruolo. Il ruolo comporta precise modalità di relazione e di solito rapporti di gerarchia, nel senso di un esercizio di una qualche forma di potere.

I luoghi in cui vediamo attuarsi le funzioni e delinearsi i ruoli sono quelli in cui viviamo le nostre vite, a casa e nella famiglia, a scuola tra studenti e i professori, nel luogo di lavoro con colleghi, soci, capi, subalterni, nelle arti tra chi impara e chi insegna. Mi verrebbe da dire che forse solo l'ambito delle amicizie resti un po' al di fuori, forse anche un po' più libero, da queste dinamiche, o almeno finché per amicizia si intende quella forma di frequentazione pacifica, leggera, anche se intima e intensa, salvo per il fatto che nulla, almeno idealmente, dovrebbe essere dato per scontato, o messo come clausola.

In generale quando si interpreta un ruolo e si esercita una funzione ci sono delle aspettative, chiare o più sfumate a seconda del caso, che restano in attesa che quella funzione una volta esplicata produca un risultato, tangibile o meno, concreto o astratto, ma in ogni caso con un obbiettivo, uno scopo. Il corretto esercizio di quella funzione nell'ambito di quel ruolo fa sì che ci sia il riconoscimento di una figura, della capacità e dell'autorevolezza che quella persona possiede rispetto a quel ruolo. Stiamo andando molto vicino al concetto di fiducia.

Un essere che sia libero da forme di attaccamento e di identificazione, pur esercitando alcune o molte funzioni, ricoprendo uno o più ruoli, saprà quando è il momento per lasciar andare queste istanze di sé ed essere semplicemente ciò che siamo in origine. Ad esempio, una frase che anni fa risuonò forte nella mia mente fu: "Io non sono il mio lavoro". Per trasposizione e analogia, io “non sono" un marito, un padre, un figlio, uno studente, un insegnante, un ingegnere, un aikidoka, uno shiatsuka, un alpinista, e via dicendo, nell'andare a mettere in fila le esperienze di una vita con tutte le possibili funzioni che potrei all'occorrenza saper o dover mettere in atto. E' un concetto che sempre più si fa' strada nella mia ricerca personale e che alla fine si può riassumere in una frase: "Io non sono quello". Qualche cosa sarò, ma non quella roba lì!

Aderire ad una certa funzione, ricoprendo anche per tempi lunghi un certo ruolo, non implica essere definitivamente quella funzione, ne’ avere quel ruolo. Non significa essere diventato "quello". Sono elementi temporanei che vengono emanati e ritirati a seconda di una richiesta o meno da parte di una realtà contingente. Faccio l'alpinista mentre arrampico, il guidatore se conduco un'automobile, il pedone quando cammino a piedi, lo shiatsuka mentre tratto una persona.

Ma non mi identifico in nulla di tutto ciò.

Sembra facile, ma a volte non lo è affatto. C'è un altro aspetto, che viene implicato e che a volte può essere anche più limitante o fastidioso: il fatto di vivere in società organizzate secondo certe abitudini, fa sì che chi mi sta intorno mi veda, magari spesso, nell'esercizio di una di queste funzioni o nell'ambito di quel ruolo e tenda a catalogarmi secondo quello che ha visto, soprattutto le prime volte che ci si è frequentati, e poi tenda a riappiccicarmi quella forma ogni volta che mi pensa, soprattutto se in quella forma può delegarmi la soluzione di qualcosa che gli piacerà trovare durante i nostri incontri successivi, o in caso contrario, se quella cosa a lui/lei dà fastidio. E siccome la relazione ricomincia con questa premessa, sentirò una sorta di "dover aderire" a quel ruolo perché è quello che si aspetta da me. Dovrò indossare nuovamente quel vestito, assumermi quella responsabilità all'interno di qualche dinamica e so che ci si aspetterà un risultato che sia capace di soddisfare una certa richiesta. Può essere molto condizionante, sia per me, sia per la relazione con l’altro/a.

Chi si è innamorato sa bene che l'attimo in cui si vede e si sente l'altra persona è magico proprio perché ... non c'è nulla di precostituito. Quale meraviglia, quale stupore e piacevole scoperta dell'altro/a da sé. Dura un attimo, perché subito dopo cominceranno ad arrivare dei pensieri: le/gli piaccio? Mi pensa? Ma quanto mi pensa? E già piano piano si comincia a mettere qualche "vestito" a sé stessi e all'altro/a, per essere notati, accolti, risultare interessanti, cercare negli occhi dell'altro il riconoscimento del proprio desiderio. E' tutto spontaneo e anche appassionante, però quanta bellezza c’è in quel primo istante in cui non si pensa ancora nulla.

E' la qualità che si cerca di trovare in una seduta di Shiatsu in ogni istante in cui, attraverso tutti i sensi, cerchiamo di sentire l'altro essere, le sue qualità, la sua perfezione, la sua poesia, la sua canzone, il suo colore e il suo profumo. Lo stato dell'Operatore si dice che sia "neutro", rispetto a qualunque aspettativa, fosse anche solo quella di ottenere un miglioramento della vitalità, un riequilibrio dell'energia. E' chiaro che c'è una situazione in atto, per cui assumerò quel ruolo ed eserciterò una certa funzione: la seduta, l'operatore Shiatsu, il trattamento. Avrò dei sistemi di riferimento, la mia cultura, la mia tecnica, la mia capacità di ascolto. Attraverso i sensi risponderò alla richiesta della persona che è venuta, con tutto il suo essere, modificando il contatto in base a ciò che emergerà via via durante quel trattamento. Sceglierò un linguaggio, il più appropriato possibile per accogliere inizialmente e per dare qualche suggerimento al termine della seduta a chi è venuto con un suo personale desiderio. Modulerò, a seconda dell'istante e di ciò che sento, la mia presenza fatta di pressione e di valutazione di ciò che c'è.

Alla fine, la seduta volgerà al termine, io ritirerò la mia funzione e uscirò da quel ruolo, che forse avrà altre occasioni per presentarsi, anche con quella stessa persona, per cui cercherò di avere occhi, orecchie e mani sempre nuovi; l'unica cosa che continuerà, forse, sarà la meraviglia per ciò che avrò di fronte.

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